Malgrado venti secoli di appassionata lettura credente e due di occhiuta, spesso sospettosa, lettura “storico-critica”, si ha l’impressione – che è poi certezza, fondata sull’esperienza quotidiana dell’indagatore – che le parole greche del Nuovo Testamento siano ancora lontane dall’avere rivelato tutta la loro profondità e tutti i loro segreti. Si ha l’impressione, cioè, che, dietro quelle antiche espressioni, ci siano ancora molte cose da capire e da portare alla luce. Così che, agli scavi archeologici, può e deve accompagnarsi lo scavo sempre più approfondito dentro testi la cui inesauribilità è tra gli aspetti che più inducono a convincersi di un Mistero che vi stia dietro.
In questo articolo ci confronteremo con uno di quei casi in cui, probabilmente, la comprensione sinora avuta di certe espressioni va mutata, aprendo nuove prospettive. E questo proprio nel cuore della fede, proprio al suo inizio stesso, il mattino di Pasqua. La fede in Gesù come il Cristo atteso da Israele nasce infatti, per tutti, con le apparizioni del Risorto. Per tutti, tranne che per uno: per il discepolo prediletto, per colui che “il Maestro amava”, per il giovane Giovanni. È lo stesso che, nel suo vangelo, ci racconta come, entrato con Pietro nel sepolcro “vuoto” (ma che, poi, evidentemente, vuoto del tutto non era, visto che vi era abbastanza da indurre alla fede), “vide e credette” (Gv 20,8): Eỉden kaì epìsteusen, nell’originale greco. Un’espressione sintetica, lapidaria, che segna un momento solenne: è in quell’istante, in effetti, che nasce la fede, che nasce il cristianesimo stesso.
Ma perché Giovanni “credette”, a differenza di Pietro che pure, prima di lui e poi accanto a lui, vide le stesse cose e restò perplesso, senza “ancora avere compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti”, come aggiunge Giovanni stesso (20,9) e come conferma Luca, 24,12 (“(Pietro) tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto’)? Perché a Giovanni basta ciò che ha scorto, appena entrato nel sepolcro, mentre a Simone, che pure è capo del collegio apostolico, occorre una speciale iniziativa del Risorto stesso, per stare a Luca nella finale del resoconto dei discepoli sulla via di Emmaus: “Davvero il Signore è risosto ed è apparso a Simone” (Lc, 24,34)? E’ una domanda di straordinaria importanza perché, lo dicevamo, dalla sua risposta dipende il momento stesso della nascita della fede. Eppure, è sorprendente constatare come si sia sorvolato proprio su questo versetto decisivo. Ci si accontenta, così, di spiegazioni che in realtà non spiegano nulla come (citiamo un solo esempio, tra i più recenti e diffusi) la nota che a quel “vide e credette” appone la traduzione ecumenica della Bibbia: “Il discepolo vede nella tomba vuota e nelle bende piegate con cura il segno che lo conduce a riconoscere, nella fede, la risurrezione di Gesù”.
Siamo ben lontani da una spiegazione soddisfacente: la “tomba vuota” è tutt’altro che un segno inequivocabile, tant’è vero che non è bastata a far intuire la verità alle donne, le quali, entrate (nel sepolcro) non trovarono il corpo del Signore. Mentre erano incerte per questo… ” (Lc, 24,4). La sola scomparsa del cadavere autorizzava tutte le supposizioni, a cominciare dal furto, come pensa – piangendo, e per stare allo stesso Giovanni – Maria di Magdala (20,11 ss.).
Non è poi ammissibile l’altro elemento della presunta spiegazione: le “bende piegate con cura” come “segno” della Risurrezione, evidentemente sul presupposto, da parte dell’autore della nota, che un ladro avrebbe lasciato tutto in disordine e non avrebbe perso tempo a mettere ordine. Non è ammissibile, innanzitutto, perché proprio le “bende” (come dice, con scarsa precisione, la nota) erano, stando alla traduzione della Cei – che è il testo utilizzato per l’edizione italiana della traduzione ecumenica, di cui sì sono riprodotti solo i commenti – quelle “bende”, dunque, erano gettate “per terra”, come Giovanni ripete per due volte (20,5-7). In apparente ordine (“piegato in un luogo a parte” Gv, 20,7, per dirla con la stessa traduzione) era semmai il sudario che gli era stato posto sul capo” (ibid.). Dunque, la tomba presentava un aspetto insieme ordinato e disordinato. Sia la sparizione del cadavere sia l’aspetto delle vesti funerarie sembravano lanciare un messaggio ambiguo, aperto a tutte le interpretazioni. Tale, comunque, da non giustificare affatto quel “vide e credette”. Oltretutto, dal contesto sembra chiaro che quel “credette” non risale al fatto che la tomba fosse vuota, ma piuttosto al fatto che c’era là dentro – in quell’alba della prima domenica della storia – “qualcosa” che indusse di colpo Giovanni a credere. Divenendo, se così possiamo dire, il primo cristiano. Che cos’era quel “qualcosa”? E possibile, scrutando i testi, riuscire a intravedere quali siano stati quei “segni” tanto inconfutabili?
Occorre riconoscere che l’annuncio primitivo del cristianesimo, quale ci appare dal Nuovo Testamento, sembra quasi dimenticare la tomba. Il fatto che sia restata vuota non entra nel Credo e tutta la prima predicazione insiste, come prova di verità, unicamente sulle apparizioni.
Solo nel vangelo di Luca vi è l’episodio narrato anche da Giovanni, ma vi si cita soltanto Pietro: “Pietro corse al sepolcro e, chinatosi, vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto” (Lc, 24,12). La tradizione cui Luca ispira il suo vangelo è quella che ha raccolto da Paolo: in essa, evidentemente, l’episodio era raccontato in modo abbreviato, non citando Giovanni (probabilmente perché ancora troppo giovane al momento dei fatti e, dunque, non abbastanza autorevole), ma confermando quanto nel quarto vangelo è detto, a proposito degli effetti di perplessità e non di fede procurati su Pietro dalla visita al sepolcro. Si noti, tra l’altro, nel brano di Luca appena citato, quel “chinatosi”, che è esattamente il “chinatosi” di Giovanni, che lo riferisce a se stesso, ma che ha lo stesso valore: quello, cioè, di una sorta di “frammento” di ricordo diretto, restato nel racconto fatto dagli stessi protagonisti. È un altro dei tanti segnali, sparsi per tutto il vangelo, che rinviano – all’improvviso e senza alcun sospetto di premeditazione – a una testimonianza diretta e oculare, a un elemento cronachistico. Ma è tra i segnali di verità, anche perché rispecchia una realtà che l’archeologia ha confermato: come tutte quelle dei notabili d’Israele, anche la tomba di Giuseppe d’Arimatea era scavata nella roccia e la sua apertura era più bassa della statura di un uomo. Così che, per entrarvi o anche solo per guardarvi dentro, occorreva “chinarsi”: proprio come dicono il vangelo di Luca e quello di Giovanni. Tra l’altro, tra le tracce e gli indizi di nascosto accordo tra i vangeli, c’è un “segnale” nello stesso capitolo 24 di Luca dove, al versetto 12, per brevità o per il motivo che dicevamo (l’età di Giovanni, in un mondo dove aveva valore solo la testimonianza di uomini maturi) non si parla che di Pietro accorso al sepolcro. Ma ecco che, poco sotto, i due discepoli che se ne vanno verso Emmaus e parlano con lo Sconosciuto, dicono: “Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato le cose proprio come le donne avevano detto, ma lui non l’hanno trovato!” (Lc, 24, 24). I verbi al plurale (“alcuni dei nostri” è il soggetto) non possono spiegarsi con il solo Pietro di cui lo stesso evangelista aveva parlato e sembrano confermare che accanto a lui c’era qualcun altro, visto che non vi è cenno di altre visite al sepolcro da parte di uomini (delle donne gli evangelisti parlano sempre a parte, e distinguendo con chiarezza).
Comunque sia, soltanto quando Giovanni – dopo che i Sinottici avevano già scritto, secondo il parere comune degli studiosi – redasse il suo vangelo, dell’episodio fu data la versione “completa”; e fu data dall’evangelista-apostolo stesso, che dice di avervi partecipato in prima persona. La riportiamo qui, quella versione giovannea, come al solito nella traduzione della Conferenza Episcopale Italiana.
C’è, innanzitutto, l’antefatto, che non è possibile trascurare e che quindi richiamiamo al lettore, anche se la nostra analisi si eserciterà su quanto segue: “Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!” (Gv, 20,1 ss.).
Ed ecco subito di seguito il passo che ci interessa esaminare, perché in esso è contenuto l’enigma troppo spesso trascurato (che cosa vide Giovanni?): “Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entro. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo che era giunto per primo al sepolcro e vide e credette” (Gv, 20, 3-8).
Così, dunque, la Bibbia “ufficiale” dei cattolici italiani; la quale però qui (alla pari, del resto, di tutte o quasi le altre traduzioni, sia in Italia, che nel mondo intero) sarebbe imprecisa, equivocando a tal punto sulla lettera e lo spirito dell’evangelista da rendere incomprensibile le ragioni di quel “vide e credette” che termina in modo folgorante la prima visita a ciò che diventa da quel momento il Santo Sepolcro. La dimostrazione (se davvero è tale) che qui i traduttori cadrebbero in gravi abbagli, è proposta da un prete diocesano laziale, un “dilettante”, don Antonio Persili, anziano parroco a Tivoli. Sin da seminarista, racconta, fu ossessionato da quel eỉden kaì epìsteusen: che cosa vide Giovanni per credere? Insoddisfatto dalle spiegazioni tradizionali (e non a torto, come vedremo) don Persili per decenni si è arrovellato, cercando se per caso, sotto quelle poche parole greche, Giovanni avesse dato indicazioni su ciò che c’era davvero là dentro.
Convinto, a un certo momento, di avere avuto l’intuizione giusta, l’approfondì sempre di più, decidendosi finalmente nel 1988 ad esporre in un libro i risultati delle sue ricerche. Il volume, dal titolo “Sulle tracce del Cristo risorto” (sottotitolo: “Con Pietro e Giovanni testimoni oculari”), non trovò un editore e, quindi, don Persili lo pubblicò a sue spese. Un esemplare fu inviato dall’autore anche al sottoscritto che, riservandosi di esaminarlo un giorno o l’altro, lo depose sui suoi scaffali. Tra migliaia di altri libri, giacque dimenticato il libretto, dall’apparenza modesta, del vecchio parroco di Tivoli (scambiato a prima vista anche da chi scrive, occorre pur confessarlo, per uno dei tanti apologeti naifs che inviano in continuazione a studiosi e giornalisti le loro presunte, quasi sempre inservibili, “dimostrazioni scientifiche” della verità dei vangeli).
Avendo recuperato il testo dimenticato quando si trattò di scrivere questo libro e avendolo studiato con attenzione, eccoci a proporre alcune sue ipotesi come attendibili. In ogni caso, seriamente documentate da uno che, come questo sacerdote, dimostra di maneggiare molto bene il greco del Nuovo Testamento e di avere studiato e ricostruito come pochissimi altri le tecniche, gli usi, i costumi funerari nell’Israele antico. Un aspetto, questo, essenziale per cercare di capire che cosa “vide” Giovanni e, in generale, per saggiare la storicità dei racconti di passione, morte, risurrezione; e aspetto, invece, a tal punto trascurato che, nell’immensa bibliografia biblica, sembra proprio che manchi un’opera specifica approfondita che lo affronti. Don Persili lo ha fatto, con risultati che sembrano convincenti.
Seguendo la ricostruzione, attenta ai testi e alle fonti, del Persili, la preparazione del corpo fu accurata e completa, non affrettata e provvisoria come abitualmente si dice. Mancava il tempo, mentre incombeva l’inizio del sabato, quando ogni lavoro doveva cessare? In realtà i due uomini, entrambi grandi notabili in Israele, dovevano disporre di molti servi che certamente portarono con sé e che i due coordinarono efficacemente perché le cose si svolgessero al meglio. Quanto alle ore disponibili, dovettero essere di più di quanto si pensi. Se Gesù morì, stando ai Sinottici, all’ora nona (le tre del pomeriggio), stando alle stesse fonti le operazioni per la sepoltura iniziarono più tardi, quando era ormai venuta la sera “(Mt, 27,57; Mc, 15,42) e occorreva non attardarsi per evitare di essere sorpresi dall’inizio del sabato. Ma questo, come sembrano ignorare molti, non cominciava col tramonto del disco solare: stando ai rabbini, quando in cielo appariva la prima stella si era ancora al venerdì, alla seconda si era tra il venerdì e il sabato e solo alla terza stella cominciava il giorno sacro del riposo.
Le tristi operazioni iniziarono con l’acquisto del “lenzuolo” da parte dell’Arimateo, stando al racconto di Marco (15,46). In realtà, la traduzione della Cei (“egli, allora, comprato un lenzuolo…”) non sembra accettabile. La parola sindớn può anche, in senso secondario e particolare, significare “lenzuolo” (al pari di “vela” “vessillo”, ecc.), ma in senso primario e generico significa “tessuto di lino”, “tela”. Non esistevano lenzuoli funerari da comprare, magari in apposite botteghe: i morti erano sepolti dagli ebrei con le loro vesti. Ciò che Giuseppe d’Arimatea comprò – o, meglio, quasi certamente fece comprare da qualche suo servo – fu un rotolo di tela di alcuni metri, di cui si servì per ritagliare i pezzi necessari per ricoprire, avvolgere, legare il corpo di Gesù, completamente nudo (tranne, forse, uno straccio alle reni: omaggio romano alla pudicizia ebraica) poiché le sue vesti, come per ogni condannato a morte, erano finite ai soldati. Dal rotolo di tela fu ricavato subito il lenzuolo in cui il Crocifisso fu avvolto, come specificano tutti e tre i Sinottici, mentre Giovanni dà questo per scontato e passa alla fase successiva: “e avvolsero (il corpo) in bende…”(19,40).
L’avvolgimento previo nella tela (la “sindone”) era necessario per due motivi: innanzitutto, per evitare di toccare direttamente il cadavere e non incorrere così in una grave impurità; in secondo luogo, per una prescrizione della Legge, che imponeva di non lasciare disperdere il sangue dalle ferite di chi fosse morto in modo traumatico. Si sa che, per l’ebraismo, il sangue rappresenta l’uomo stesso: andava dunque in qualche modo “salvato”, tanto che si imponeva di seppellire con il morto anche le zolle di terra su cui qualche goccia fosse caduta.
Anche alla luce di ciò, si noti, in questi racconti di sepoltura, un segno ulteriore di credibilità storica a silenzio: non si dice, cioè, che il cadavere di Gesù sia stato lavato, come era invece d’uso – anzi obbligatorio, stando ai rabbini – in Israele. Persili: “Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo non hanno lavato e unto con l’olio il corpo di Gesù, ma lo hanno avvolto semplicemente in una tela non perché non avevano tempo a disposizione; non perché non avevano l’acqua, che avrebbero potuto procurarsi con facilità; neanche perché pensavano di procedere solo a una sepoltura provvisoria; e, di certo, nemmeno perché non amavano e non rispettavano abbastanza Gesù. Se non l’hanno fatto, è perché obbedivano a una precisa prescrizione della Legge, che imponeva di seppellire il defunto per morte violenta con il suo “sangue di vita”, senza detergerlo. E solo degli esperti della Legge, come quei due, potevano conoscere questa particolare prescrizione”. Dunque, non solo in ciò che fecero, ma anche in ciò che non fecero si nasconde un segnale di attendibilità storica.
Ecco, allora, la sintesi della ricostruzione data da Antonio Persili: “Il corpo di Gesù fu preparato per la sepoltura nel seguente modo. Prima fu avvolto in una grande tela (la sindớn) con il duplice scopo di non toccare il cadavere con le mani nude e di non disperdere il sangue. Quindi, si passò alla seconda operazione di avvolgere e legare il corpo con le fasce (othớnia) versando nel frattempo, all’interno e all’esterno di esse, profumi. I Sinottici, non avendo parlato dell’intervento di Nicodemo con i suoi aromi, non ne descrivono l’impiego, anche perché non avevano intenzione di dire per filo e per segno come era stato preparato il corpo di Gesù per la sepoltura; mentre Giovanni, usando il verbo entafiàzo, che significa esattamente “preparare un cadavere per la sepoltura” e non semplicemente “seppellire”, descrive con precisione come essa di fatto avvenne. Questa operazione di avvolgimento e di legamento fu preceduta e seguita dall’applicazione di due “sudari”: il primo all’interno della sindone, dove svolgeva la funzione di mentoniera; il secondo all’esterno, per completare l’avvolgimento e il legamento, come vedremo meglio. E il tutto fu fatto al di fuori del sepolcro, sulla pietra da unzione che faceva parte del complesso sepolcrale di proprietà di Giuseppe”. Quando tutto fu finito, il corpo fu trasportato all’interno, sul banco scavato nella roccia. Poi, per dirla con Matteo, “fu rotolata una grande pietra sulla porta del sepolcro” (27,60). Dopo il silenzio del sabato (questo giorno inquietante e misterioso forse più di ogni altro. quello in cui il Padre si “nasconde” a tal punto che il Figlio giace inanimato in una tomba), verrà la sorpresa sbalorditiva del “terzo giorno”.
Tra sindone, sudario, fasce.
Perché Giovanni – l’apostolo e l’evangelista – fu il primo che credette nella risurrezione di Gesù? Che cosa “vide” per avere “creduto” (come dichiara al versetto 8 del capitolo 20 del suo vangelo), dopo essere entrato nel sepolcro, al seguito di Pietro, in quell”’ottavo giorno” che divenne la prima domenica della storia?
Impostato in precedenza il problema, adesso, affrontiamo subito il testo di Giovanni nella traduzione datane dalla Bibbia della Cei, affiancandovi la versione e la relativa interpretazione di Antonio Persili, il sacerdote che ha dedicato gli studi di una intera vita a cercare di decifrare il perché di quella fede subitanea. Giovanni, 20,5, traduzione della Conferenza Episcopale Italiana: “Chinatosi, (Giovanni) vide le bende per terra, ma non entrò”. Traduzione di Antonio Persili: “ Chinatosi, (Giovanni) scorge le fasce distese, ma non entrò”. Come si vede, l’edizione ufficiale cattolica ha “le bende per terra”; quella del nostro studioso traduce “le fasce distese”. Il punto è decisivo per lo stesso evangelista, che in ciascuno degli altri due versetti che seguono (il 6 e il 7) parla di quelle che per la Cei sarebbero “bende per terra”, mentre per Persili sono sempre e solo “fasce distese”. Che cosa ha voluto comunicarci Giovanni, ripetendo tre volte in tre versetti successivi quel suo keìmena tà othònia, quel linteamina posita come traduce la Vulgata latina?
Per capire dobbiamo rifarci, come sappiamo, alla “tecnica” di sepoltura messa in atto per Gesù, secondo le leggi e i costumi ebraici, da Giuseppe d’Arimatea, dal suo pietoso aiutante, Nicodemo e, certamente, dai loro servi. Come ricordavamo precedentemente, Persili coordina (con un’abilità nella quale non sembra però di scorgere forzature) i cenni che al proposito ci danno i Sinottici con quelli di Giovanni, mettendo in rilievo che il corpo del Crocifisso deve essere stato interamente avvolto in una grande tela – la sindòn – non solo per evitare il contatto dei vivi con un cadavere di per sé impuro, ma anche per obbedire al precetto di non disperdere il sangue di chi fosse morto con ferite sul corpo.
Dallo stesso rotolo di tela da cui fu ricavata quella “sindone”, l’Arimateo – o qualche suo servo – tagliarono tà othònia: che non sarebbero “bende”, ma “fasce”. “Bende”, in effetti, erano quelle che legavano il cadavere di Lazzaro e per indicare le quali lo stesso Giovanni usa un diverso sostantivo (11, 44). Le othònia – le quali, lo ripetiamo, tornano qui in tre versetti – erano più alte: delle grosse “fasce”, con le quali fu avvolto tutto il corpo di Gesù, escludendo solo la testa. Su quest’ultima, alla “sindone”, che già la copriva, fu sovrapposto il “sudario”.
Come giunge Persili a questa ricostruzione? Innanzitutto, facendo osservare come sia scritto che Giovanni, “chinatosi vide le fasce”: se vide solo esse e non il lenzuolo, è evidentemente perché quest’ultimo era tutto coperto dalla fasciatura (ad esclusione del capo; ma l’Apostolo, stando al di fuori, vedeva la parte dov’erano stati i piedi).
Ma, poi, non va dimenticato che poco prima lo stesso evangelista aveva parlato di quelle stesse othònia: “Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, come è usanza seppellire per i Giudei” (Gv, 19,40). Gli “oli aromatici” sono la “mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre” portata da Nicodemo. Erano ben 32 chili e 700 grammi, in forma liquida, di cui una parte fu versata sulla pietra sepolcrale sino a preparare un “letto” di profumi, un’altra parte servì per ungere le pareti interne della tomba (ecco perché una simile quantità, che è sembrata inverosimile a tanti critici) e il rimanente fu versato sulla sindone. Le “fasce” messe tutto attorno al corpo di Gesù, sino a coprire interamente il lenzuolo, avevano anche la funzione di impedire quella troppo rapida evaporazione del liquido aromatico che si sarebbe verificata se la sindone fosse stata a contatto con l’aria. Si noti che questa sembra essere stata la funzione anche del sudario sul capo. Se c’era già la sindone che lo avvolgeva, perché quel pezzo ulteriore di tela? Una ragione precisa l’aveva: proteggere la soluzione di mirra e di aloe da una evaporazione eccessiva-mente veloce.
“Fasce”, dunque, non “bende”: una copertura completa sino al collo. E, soprattutto, non “per terra” (Cei) bensì “distese” (Persili). Il testo greco, in effetti, dice che le othònia erano keĩmena. C’è qui, dunque, il participio del verbo keĩmai, che corrisponde al latino jacere, giacere. Come spiega un vocabolario classico di greco, quello dei Bonazzi, keĩmai “significa giacere, essere disteso, seduto, steso, orizzontale; si dice di una cosa bassa in opposizione ad una elevata, eretta, come per esempio il mare calmo rispetto al mare agitato”.
Ne deriva, dunque, Persili: “Il significato che Giovanni vuoi dare a questo verbo è far risaltare che prima le fasce erano rialzate (“come un mare agitato’), perché all’interno c’era il corpo; dopo la Risurrezione, invece, le fasce erano abbassate, distese (“come un mare calmo”), giacendo nel medesimo posto in cui sì trovavano quando contenevano il cadavere di Gesù. E’ arbitrario farle giacere per terra, come vuole la versione ufficiale. La Vulgata traduce con il participio posita, che rende bene l’idea delle fasce distese e vuote, perché il verbo ponere significa appunto “mettere giù”. Perciò le due parole keĩmena tà othònia si devono tradurre come “le fasce distese”, ma intatte, non manomesse, non disciolte (…) Esse costituiscono la prima traccia della Risurrezione: era infatti assolutamente impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce, semplicemente rianimato, o che fosse stato asportato, sia da amici che da nemici, senza svolgere quelle fasce o, comunque, senza manometterle in qualche maniera”.
Continua il nostro autore: “Questa traccia sarebbe stata sufficiente per credere nella Risurrezione, ma nel sepolcro v’era una traccia ancora più straordinaria, che Pietro ebbe la ventura di vedere per primo: la posizione del sudario. Se è importante, per capire la fede immediata di Giovanni, la posizione delle fasce, lo è ancora di più la posizione del sudario, quello che stava al contatto del corpo. E una posizione così sorprendente che all’evangelista è necessario un intero versetto di venti parole per descriverlo”.
Prima di quel versetto, il settimo, c’è ovviamente il sesto che, nella versione Cei, dice: “Giunse intanto Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra”. Qui la sola mutazione da apportare, come sappiamo, sarebbe “le fasce distese” al posto di “le bende per terra”. Ma ci sarebbe da aggiungere che sia la Vulgata latina che l’attuale versione cattolica italiana traducono sempre con “vedere” i tre diversi verbi greci impiegati in questi versetti da Giovanni. Si perde così una sfumatura importante, con la quale l’evangelista sembra avere voluto indicare una progressione: dal primo constatare con perplessità, al contemplare successivo e poi al vedere pienamente, così da comprendere e da credere.
Non è una osservazione marginale, perché anche in questa scelta attenta di verbi solo apparentemente sinonimi Giovanni conferma quale attenzione richieda al lettore perché colga il significato preciso di ogni parola. Che nulla nei vangeli sia “casuale” è possibile scoprirlo anche in queste “finezze” che stanno dietro al testo originale e che spesso non è possibile apprezzare nelle traduzioni, che hanno reso i tre verbi usati da Giovanni in questi versetti (blépei, theòrei, eìden) tutti con un “vide”. Ma veniamo al versetto 7 che continua la descrizione di ciò che si trovò davanti Pietro: “e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte”. Così la versione Cei. Stando, invece, alla traduzione proposta da Persili: “e il sudario, che era sul capo di lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto in una posizione unica”.
Innanzitutto, va ricordato che il termine “sudario” ha assunto per noi, proprio sotto l’influsso delle parole evangeliche, un significato funerario, mentre invece altro non era che un pezzo di tela, un fazzoletto (più grande dei nostri attuali) usato per detergere il sudore. Come dice, del resto, la parola stessa. Ricordarlo è importante, perché molti hanno fatto e fanno confusione tra la “sindone” di cui parlano i Sinottici e il “sudario” di Giovanni, magari al punto di identificarli, credendo fossero entrambi “abiti funerari”. In realtà, quel “sudario” era un pezzo – probabilmente con un lato dai 6o agli 8o centimetri – che Giuseppe d’Arimatea tagliò, o fece tagliare, da quel rotolo di tela da cui già aveva tratto la sindòn e le othònia, il lenzuolo e le fasce.
Sul perché di questa copertura ulteriore, col sudario, sul capo già rivestito dalla sindon abbiamo detto più sopra: una protezione del liquido aromatico versato in quantità da Nicodemo e dai suoi servi. Né è da escludere l’altro motivo addotto da Persili: non lasciare in disordine le piegature del lenzuolo, visto che tutto il resto del corpo era ordinatamente fasciato. E sia l’Arimateo che Nicodemo, ricchi e autorevoli notabili, non erano certo persone da amare lavori approssimativi, soprattutto per un uomo che avevano amato. Forse non è da escludere neppure che le ferite al volto e al capo (la corona di spine, tra l’altro, fonte di una abbondante emorragia) inzuppassero di sangue il lenzuolo. Se Giovanni specifica che era proprio “quel sudario che gli era stato posto sul capo” è probabilmente, dice Persili, per “mettere in guardia il lettore dal credere che si stia parlando dell’altro sudario, che si trovava all’interno della grande tela, come mentoniera, e che perciò non era visibile. Giovanni, insomma, precisa che Pietro ha visto il sudario che stava all’esterno, sul capo di Gesù, e non quello che stava all’interno, intorno al capo di Gesù”. La mentoniera, in effetti, faceva parte pietosa dell’uso funebre per impedire la vista disdicevole della bocca spalancata a causa del cedimento, nel defunto, dei muscoli della mandibola. Un chiarimento al lettore antico era dunque necessario da parte dell’evangelista: Gesù era stato sepolto rispettandone anche in questo la dignità.
Proseguiamo: quel “sudario”, quel fazzoletto, “ non (era) per terra con le bende” (Gv 20,7): così vorrebbe la traduzione Cei. E qui ritornano, dunque (per la terza e ultima volta), le othònia keĩmena. Persili: “In realtà, il vangelo vuol dire che il sudario non era appiattito sulla pietra sepolcrale. I geometri dell’antica Grecia usavano l’espressione keĩmenon schéma nel senso di “figura in piano, orizzontale”. L’evangelista vuol dire la stessa cosa: le fasce erano distese in piano, sì trovavano in posizione orizzontale, mentre il sudario era in una posizione rialzata”. Da qui, la traduzione proposta dal nostro studioso: “non con le fasce disteso”. Il sudario, s’intende, è il soggetto. Segue subito dopo – in questo stesso cruciale, decisivo versetto 7 – un allà chorìs entetyligménon, che la Cei traduce con un “ma piegato a parte”. Sentiamo ancora il nostro sacerdote biblista: “L’infelice traduzione distrugge la mirabile traccia che l’evangelista ha rilevato con grande cura e ha descritto con laconicità e chiarezza. Infatti, questa traduzione contiene tre errori che stravolgono la testimonianza di Giovanni.
Secondo don Persili, dunque, “prima di tutto, il participio entetyligménon è stato tradotto, arbitrariamente, con il participio italiano “piegato” invece che con “avvolto”. Il verbo entylìsso corrisponde ai verbi “avvolgo, involgo, ravvolgo”. Ne è conferma il fatto che deriva dal sostantivo entylé che corrisponde a “coperta, accappatoìo oggetti che servono per avvolgere e non per piegare”. Ma c’è poi quel chorìs, che è un avverbio: “E vero che, in italiano, significa innanzitutto “separatamente, a parte, in disparte”. Ma è anche vero che, in senso traslato, può significare “differentemente, al contrario”. Può assumere due sensi: quello locale e quello modale, traslato. Qui si vuol dare all’avverbio chorìs il significato traslato, perché la logica della testimonianza consiste nell’opporre la posizione assunta dalle fasce (distese) a quella, diversa, assunta dal sudario (avvolto)”. Terzo errore – o fraintendimento che sia – della traduzione ecclesiale italiana sarebbe il non avere compreso (per motivazioni filologiche che qui sarebbe troppo complesso esporre) i rapporti tra l’avversarivo allà (‘ma’) e l’avverbio chorìs.
“Concludendo”, scrive Persili, “la frase si deve tradurre in modo da rendere l’idea che il sudario per il capo si trovava in una posizione diversa da quella delle fasce per il corpo e non in un luogo diverso. Pietro contempla le fasce distese sulla pietra sepolcrale e, sulla stessa pietra, contempla anche il sudario che, al contrario delle fasce, che sono distese, è in posizione di avvolgimento, anche se non avvolge più nulla”. Pertanto, la traduzione corretta sarebbe, invece che il “ma piegato a parte” della Cei: “Ma al contrario avvolto”.
Però, per completare questo versetto 7, ci sono tre altre brevi parole greche le quali sarebbero state fraintese più ancora delle altre. Quelle parole sono eis éna topòn: stando alla Cei – e, bisogna pur dire, stando al senso immediato per chiunque sappia anche solo un po’ di greco – il loro significato sembra evidente. E, cioè: “in un luogo”. E con questi tre termini che la traduzione dei vescovi italiani può costruire la frase “in un luogo a parte”. Poiché, però, questo non sembra dare significato sufficiente, le interpretazioni si sono sprecate: pensiamo di poterle risparmiare al lettore, arrivando subito alla proposta di Persili. Proposta certamente inedita, magari “scandalosa” per qualche esperto, ma che in realtà non sembra avere contro motivazioni filologiche serie. Se poi, davvero, si trattasse della traduzione “giusta”, si illuminerebbe in modo plausibile e definitivo il senso di quell’enigmatico “vide e credette”.
Lasciamo dunque ancora la parola a Persili, il quale propone innanzitutto di intendere la parola greca tòpos non come “luogo”, ma come “posizione”. Non si tratta di un arbitrio, poiché questo significato è dato anche, tra gli altri, da quel vocabolario di Lorenzo Rocci che ha accompagnato generazioni di studenti liceali (il sottoscritto compreso…) e che è ancora oggi tra i più completi e attendibili.
“Ma quale è questa posizione del sudario”, continua il nostro parroco biblista, “posizione così importante da dedicargli l’intero versetto 7? Pietro (nel racconto, s’intende, che da lui dovette raccogliere Giovanni che scrive l’evangelo) la precisa con un tocco da artista per mezzo di una preposizione, eis (in italiano, “in’) e di un aggettivo numerale, éna (è l’accusativo accordato con l’accusativo del sostantivo tòpos, e significa “uno”). Abbiamo visto che questo aggettivo numerale éna non può avere il significato dì pròtos e che perciò non si può tradurre che il sudario stava “nella medesima posizione”; che non si può neanche sostenere che il sudario si trovava in un altro luogo, diverso dalla pietra sepolcrale; infine, che non si può neppure affermare che il sudario stava in un luogo indeterminato, perché tale affermazione sarebbe inutile, pleonastica e addirittura assurda. Dobbiamo perciò concludere che l’espressione eis éna deve avere un altro significato, che renda viva e precisa la testimonianza di Pietro. Il numerate eis, come si legge nel vocabolario del Bonazzi, può essere usato con il significato di “unico”.
Interrompendo un momento la citazione, aggiungiamo ciò che al Persili sembra essere sfuggito e che rafforza invece notevolmente la sua interpretazione. In effetti (come abbiamo constatato noi stessi, mentre vagliavamo questa proposta di traduzione) la voce eis – firmata dall’autorevole Ethelbert Stauffer, docente di Nuovo Testamento all’Università di Bonn – nei 15 volumi dell’insuperato Grande Lessico del Nuovo Testamento (“il Kittel”, per gli addetti ai lavori) inizia così: “ Nel Nuovo Testamento, eis è usato solo raramente come numerale. Per lo più significa solo, unico, incomparabile, oppure dotato di validità unica… “. Cioè, esattamente come propone Persili, del quale riprendiamo adesso la citazione: “ Unico è il significato che Pietro ha voluto dare a éna. Il sudario, il grande fazzoletto che avvolge il capo, al contrario delle bende, era avvolto in una posizione UNICA, nel senso di singolare, eccezionale, irripetibile. Infatti, mentre avrebbe dovuto essere disteso sulla pietra sepolcrale con le fasce, era invece rialzato e avvolto. La posizione del sudario appare unica per eccellenza agli occhi di Pietro e di Giovanni, perché è una sfida alla forza di gravita”.
Per capire meglio, bisogna ricordare (stando al nostro autore, che ha però dalla sua il Nuovo Testamento: il corpo del Risorto è “materiale“, sì, e si fa per questo “toccare” e mangia e beve, ma al contempo entra nella sala dove sono discepoli a porte chiuse, passando dunque attraverso la materia), bisogna dunque ricordare che “ Gesù non solo non uscì dal sepolcro (il ribaltamento della pietra all’entrata non fu che un “segno”), ma che non uscì neanche dalle tele perché, dall’interno di esse, entrò direttamente nella dimensione dell’eternità. Così che il suo non fu uno spostamento da un luogo all’altro, ma il passaggio misterioso da uno stato all’altro, dal tempo all’eterno”.
Pur rispettando l’enigma, ciò poté avvenire con una sorta di lampo di luce e di calore: un riflesso “sensibile” del Mistero, che dovette prosciugare di colpo gli aromi che impregnavano le tele. Scomparso il corpo, le fasce che lo avevano avvolto, più pesanti, si abbassarono sulla sindone che esse coprivano e assunsero quella posizione “distesa” che abbiamo visto. Il sudario per il capo, più leggero e più piccolo, per così dire “inamidato” per l’istantaneo essiccarsi dei profumi liquidi, restò – per usare le parole stesse del Nuovo Testamento – “ al contrario “ (rispetto alle fasce) “avvolto”, come quando cingeva la testa del defunto, apparendo così ai due apostoli “in una posizione unica”.
È’ questa situazione straordinaria che giustifica il “credette” di Giovanni dopo che “vide”? Di certo, la mancanza di ogni segno di effrazione e di manomissione nelle tele, dalle quali nessuno poteva essere uscito o essere stato estratto, e quella posizione “incomparabile” del sudario, ancora alzato, ma sul vuoto del lenzuolo sottostante distesosi sulla pietra del sepolcro; di certo, dunque, tutto questo giustificherebbe l’immediato comprendere di Giovanni e il suo arrendersi – per primo nella storia – alla realtà di una risurrezione che aveva lasciato tracce mute ma così eloquenti.
Per ulteriore chiarezza ripetiamo infine nella loro interezza i versetti dal 5 al 7 del capitolo 20 di Giovanni nella traduzione di Antonio Persili: (Giovanni) chinatosi, scorge le fasce distese, ma non entrò. Giunge intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese e il sudario, che era sul capo di lui, non disteso con le fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica”.