Dal Convegno Internazionale “Il Volto Santo e l’iconografia dell’immagine di Cristo” Università “G. d’Annunzio” Chieti 10- 11 febbraio 2006
Dopo la pubblicazione del mio testo “L’altra Sindone” – uscito in allegato con Famiglia Cristiana nel marzo 2005 e in libreria per la Mondadori nel giugno 2005 – mi è stato dato uno speciale permesso per osservare da vicino e dettagliatamente il quadro della Veronica custodito nell’omonimo pilone della Basilica di San Pietro. Posso così confermare in questa occasione le affermazioni dei pochi altri studiosi che mi hanno preceduto in tale ricognizione: non v’è traccia di immagine su quella tela conservata in Vaticano. Ciò che di lontano, quando il reliquiario viene esposto dall’alto della loggia della Veronica, appare il contorno di un volto non ‘e altro che l’intaglio di una lamina dorata, come è per i consimili esemplari che oggi si trovano nella chiesa romana del Gesù, a Vienna e a Chiusa Sclafani. Dunque è assolutamente certo che “quella immagine benedetta la quale Iesu Cristo lasciò a noi per esemplo de la sua bellissima figura” come la definì il poeta Dante intorno al 1292 nella Vita nuova, attualmente non si trova più in Vaticano. All’interno della cassaforte seicentesca, le cui serrature vengono ancora aperte con il chiavistello e le tre chiavi originali, il reliquiario della Vera Croce e l’urna di vetro che contiene la lancia utilizzata da Longino per colpire il fianco di Gesù crocifisso fanno da corona a un esemplare fasullo, realizzato tra la metà del Cinquecento e gli inizi del Seicento. Sappiamo infatti che nel 1616 giunse a Roma da Vienna una lettera con i sigilli imperiali, indirizzata personalmente a Papa Paolo V, che conteneva una richiesta apparentemente innocua e facile da esaudire: la regina Maria Costanza d’Austria, moglie di Sigismondo III re di Polonia, sollecitava in dono una pregevole riproduzione dell’ “immagine della Veronica” custodita in San Pietro, che numerosi pittori specializzati continuavano da secoli a ricopiare e a diffondere. La più recente esposizione al pubblico di tale quadro risaliva al Giubileo del 1600, quando centinaia di migliaia di pellegrini erano accorsi a Roma per poter beneficiare della consueta indulgenza plenaria concessa dall’allora Pontefice Clemente VIII. Invece le ultime volte in cui Paolo V aveva tenuto fra le mani il presunto velo erano state il 25 gennaio 1606, al momento della solenne processione per trasferire il reliquiario nella sacrestia di San Pietro, e il successivo 21 maggio, quando una medesima cerimonia lo aveva collocato nel pilastro della Veronica, uno dei quattro che reggono la cupola centrale, attorno all’altare del Bernini. Secondo la mia ricostruzione storica, in quei momenti il Papa aveva però fra le mani un falso, che veniva contrabbandato come l’originale perché in caso contrario i pellegrinaggi dei cosiddetti “romei” si sarebbero drasticamente interrotti, con una drammatica ripercussione sulle finanze vaticane, private di ingenti offerte proprio nel momento più cruciale per l’edificazione della nuova Basilica Vaticana. Quanto il Volto Santo fosse importante per l’immaginario collettivo” dei fedeli ce lo documentano infatti molteplici testimonianze, in particolare a partire dal 1300, quando fu proclamato il primo Giubileo della storia cristiana, che pro¬prio nella frequente esposizione del velo della Veronica ebbe uno dei suoi aspetti più qualificanti. Dal 1208, con il breve Ad commemorandas nuptias firmato il 13 gennaio da Papa Innocenzo III, era stata istituita per la prima domenica dopo la festa dell’Epifania la solenne processione della sacra reliquia da San Pietro fino alla vicina chiesa di Santo Spirito in Sassia. Proprio durante questa tradizionale esposizione venne dato, il 10 gennaio 1300, l’annuncio ufficiale che Bonifacio VIII aveva deciso di indire un Giubileo universale per quell’anno centenario della nascita di Cristo. E posso qui rivelare che anche Giovanni Paolo Il, nella circostanza del Grande Giubileo del 2000, ha voluto vedere il quadro custodito in Vaticano. Ha chiesto che fosse portato nel proprio appartamento, lo ha osservato attentamente e, dopo essersi reso personalmente conto dell’inconsistenza dell’immagine, lo ha fatto riportare nel pilastro della Veronica senza prendere ulteriori iniziative. Sette secoli fa, invece, Bonifacio VIII diede disposizione di incrementare, per tutto l’anno del Giubileo, le ostensioni del Volto Santo, come ha documentato lo storico dell’epoca Giovanni Villani nella sua Cronica: “E per consolazione de’ cristiani pellegrini, ogni venerdì o dì solenne di festa, si mostrava in San Pietro la Veronica del sudano di Cristo”. Cinquant’anni più tardi, in occasione del successivo Giubileo, suo fratello Matteo confermò che “il Santo Sudario di Cristo si mostrava nella chiesa di San Piero, per consolazione de’ romei, ogni domenica, e ogni dì di festa solenne”. La tradizione istituita nel 1208 da Innocenzo III – dopo essere stata esplicitamente riconfermata da Onorio III, il 5 luglio 1223, e da Alessandro IV, il 1 marzo 1255 – proseguì regolarmente per oltre due secoli e mezzo. L’abolizione della processione esterna fu decisa sul finire del 1471 da Sisto IV, il quale la trasferì all’interno di San Pietro. A spingerlo verso questa decisione era stato il ricordo della tragedia accaduta durante il Giubileo del 1450, il 18 dicembre, quando nella ressa per la falsa voce di una esposizione straordinaria del velo della Veronica morirono calpestate nella calca o affogate nel Tevere quasi duecento persone. Da questo momento, la visione della reliquia fu possibile soltanto nel corso dell’annuale esposizione dalla balaustra dell’antico oratorio situato a destra dell’ingresso della Basilica Vaticana. Del resto, anche nei secoli precedenti era stato consentito unicamente a poche persone un contatto diretto con il Volto Santo. Fra le principali autorità per le quali venne allestita un’ostensione privata, la prima citata negli atti ufficiali della Santa Sede Regesta pontificum è la contessa di Lumello nel 1271; nel Trecento ne sono segnalate alcune nell’Anno santo del 1350, fra cui re Luigi I d’Ungheria; nel Quattrocento si segnalano gli ambasciatori giunti nel 1442 dall’Etiopia, Federico III d’Asburgo nel 1452 (quando venne incoronato imperatore del Sacro romano impero da Papa Niccolò V), re Cristiano di Danimarca nel 1474. E non di rado costoro venivano prima insigniti del titolo di canonico di San Pietro per essere legittimamente ammessi a tale privilegio. Tornando al 1616, Paolo V si rese conto che era ormai necessario prendere atto del fatto che il Volto Santo era sparito da San Pietro e che le ricerche svolte nei decenni precedenti non avevano condotto a risultati tangibili. La lettera inviata dalla cancelleria viennese del Sacro romano impero poneva termine al tempo della speranzosa attesa di un recupero della reliquia, cosicché non restava altro da fare che prendere la situazione in pugno. La strategia venne accuratamente cesellata da monsignor Pietro Strozzi, che oltre a essere canonico di San Pietro ricopriva pure il delicato ufficio di segretario privato di Paolo V. Nel segreto dell’appartamento pontificio, Strozzi trasse una copia dal “prototipo’ che già si trovava nel pilastro della Veroni. Un elemento di conferma a questa ipotesi viene dal fatto che Giacomo Grimaldi, nel manoscritto Opusculum de Sacrosancto Veronicae Sudario afferma di aver avuto modo già nel 1606 di vedere l’originale dal quale fu tratta la riproduzione per la regina di Polonia. Fra il 1616 e il 1617 vennero dipinte almeno quattro o cinque repliche del quadro: oltre a quella per la sacrestia vaticana e a quella per la regi¬na di Polonia, le altre furono destinate al Papa, al granduca di Toscana e al vescovo Roberto Ubaldini (di Montepulciano). Il quadro che fu inviato alla regina Maria Costanza era accompagnato da una lettera nella quale Paolo V affermava che era stato difficile trovare un artista capace di “creare una copia quasi identica del velo della santa Veronica”, mentre invece sappiamo benissimo che a quel tempo c’erano diversi “pittori della Veronica”, costituiti addirittura in corporazione per salvaguardare i loro diritti. Ma proprio per questi ultimi fu redatta una tassativa lettera del Papa, in data 7 settembre 1616, con la quale veniva vietata qualsiasi nuova esecuzione di copie, sotto pena di scomunica. Nei primi mesi del 1628 le disposizioni del nuovo Papa Urbano VIII si fecero ancor più drastiche, come documentano due lettere circolari inviate a tutti gli arcivescovi dal cardinale Bernardino Spada, a nome del Pontefice, nelle quali si ordinava a tutti i fedeli la consegna – sotto pena di scomunica – di qualsiasi copia rappresentante “la vera sacra Immagine del Volto Santo”. L’evento essenziale, attorno al quale ruota tutto ciò che ho narrato sinora, si era verificato un secolo prima, quando la capitale dello Stato della Chiesa aveva subito uno dei maggiori oltraggi della sua travagliata storia. Il 6 maggio 1527 la città era infatti stata messa a ferro e fuoco, in quello che è ancora ricordato come il “sacco di Roma”. I lanzichenecchi tedeschi e i tercieros spagnoli – soldati mercenari al servizio di Carlo V d’Asburgo (in lotta con il suo rivale, Francesco I di Valois, e di conseguenza con Papa Clemente VII, che nel 1526 si era alleato con quest’ultimo) – assediarono il Pontefice e lo costrinsero ad asserragliarsi in Castel Sant’Angelo e a fuggire poi a Orvieto, dove rimase fino a quando accettò di incoronare Carlo V imperatore del Sacro romano impero. Di quel funesto giorno, nonché delle successive settimane di terrore, un’informazione di prima mano ci è giunta dal rappresentante romano della duchessa di Urbino, un certo Messer Urbano, acquartieratosi anch’egli a Orvieto con gli altri fedelissimi del Papa. Già il 14 maggio 1527 Urbano inviò una missiva alla duchessa e le riferì della Basilica Vaticana, “in la qual chiesia et allo altare proprio dicono esser stati morti da 500 homeni, et reliquie sante disperse et arse, et alcuni dicono anche abruciata la Veronica”. Dopo una settimana, il 21 maggio, precisò che “le reliquie sante sono andate in dispersione. Il Volto Santo è stato robato et passato per mille mani, et andato ormai per tutte le taverne de Roma, senza che homo ne habbi tenuto conto”. E ancora una volta l’11 giugno con-fermò: “Se intende pur non trovarsi el Volto Santo”. A motivo del luogo in cui Urbano si trovava, che in quelle settimane era il cuore della Curia vaticana, e dell’importanza della duchessa di Urbino, definita in una lettera contenuta nei Diarii di Marino Sanuto “moglie del Capitanio zeneral nostro, sorella del marchese di Mantoa”, queste notizie hanno un’estrema attendibilità. E non deve stupire la reiterazione con cui l’ambasciatore fa riferimento al sacro velo in quanto, come ha precisato il più accurato storico del “sacco di Roma”, il francese André Chastel, “tutta la cristianità che credeva all’importanza religio¬sa di tali reliquie tremava per la Veronica. Questa era la reliquia per eccellenza; la sua popolarità presso i pellegrini ne aveva fatto il vero palladium della Città Santa”. In effetti, già in altre drammatiche circostanze i Pontefici avevano dovuto mettersi in salvo e ogni volta una delle principali e immediate loro preoccupazioni era stata di far sì che il Santo Volto non subisse danni. Per esempio nel 1409, durante il saccheggio di Ladislao di Napoli, la Veronica fu provvisoriamente nascosta nella casa del fidato Giovanni dall’Oglio e successivamente posta al sicuro in Castel Sant’Angelo: “Alli 4 di ottobre 1409 fu portata […] in Castello perché non fosse esposta alle ingiurie dei soldati” e successivamente “al 10 gennaio 1410 nell’ora di terza Jacomo de’ Calvi, canonico priore e vicario e sacristano della Basilica di S. Pietro, con altri sei canonici andò a Castel S. Angelo e ivi prese la Veronica e la portò in detta Basilica”. Nella stessa fortezza si era rifugiato Alessandro VI, durante la discesa armata in Italia di Carlo VIII di Valois nel 1494, e anche in questa circostanza aveva portato con sé il sacro velo e le reliquie dei santi Pietro e Paolo. Invece, nel 1527, Clemente VII non ebbe il tempo di mettere in salvo la Veronica, perché la sua fu davvero una fuga precipitosa, tanto che si tramandò che furono pressoché contemporanei il suo ingresso a Castel Sant’Angelo e l’irruzione dei soldati imperiali nel Palazzo vaticano, con la successiva raz¬zia di ogni oggetto di pregio. Una sorte che invece fu risparmiata al Sancta Sanctorum, la cappella presso il Laterano nella quale erano custodite altre preziose reliquie, i cui giganteschi serramenti di ferro resistettero ai tentativi di scasso dei mercenari. Ulteriori conferme del furto nel 1527 sono presenti in resoconti di quell’epoca, raccolti dallo studioso tedesco Gustav Droysen, ma anche nella quali¬ficata Storia dei papi di Ludwig von Pastor: “Venne rubato e messo in vendita nelle osterie di Roma il sudario della Veronica cotanto venerato in tutto il medio evo”. Addirittura il cardinale Giovanni Salviati, in una lettera da Parigi dell’8 giugno 1527 a Baldassarre Castiglione, ancora sosteneva che la reliquia era stata bruciata. Un ulteriore documento contenuto anch’ esso nei Diarii di Marino Sanuto, che ho trovato dopo la pubblicazione del mio libro, è una lettera scritta da Roma il 15 giugno 1527 da un servitore dell’arcivescovo di Spaiato, successivamente copiata da un certo Vicenzo da Treviso e inviata a un non meglio identificato messer Jacomo: “Et l’è rota l’archa de san Piero et quella del Volto Santo”. Per onestà di resoconto, aggiungo che non mancano altre fonti dalle quali viene invece smentito il coinvolgimento del Santo Volto nel saccheggio. Un anonimo soldato di Frundsberg forse tirolese, nell’autunno del 1527 scrisse in una “veritiera e breve relazione” che “i saccheggiatori, non trovando la Veronica, hanno preso altre reliquie”. E anche Marcello Alberini, nelle sue memorie sul “sacco” (redatte però nel 1547), narrò che “se ne videro bene nelle hostie sagrate, nel sudarioo del nostro Signore […] et nella miracolosa imagine del Salvatore nostro in Sancta Sanctorum et in molti altri luoghi sacri che quelle mani nefande non poterno violare”. A mio parere, questo sono comunque testimonianze dall’attendibilità inferiore rispetto alle precedenti. Novant’anni dopo, nel 1616, monsignor Giacomo Grimaldi, chierico beneficiato e notaio della Basilica Vaticana, affermò di aver appreso che “il sudario di Cristo, la lancia e la testa di sant’Andrea apostolo al tempo del saccheggio rimasero intatti, salvi e senza danni”. Ma anche questa affermazione mi sembra di scarso valore, perché appartiene a un’epoca nella quale era ormai pienamente operativo il piano di “disinformazione” predisposto dal Capitolo di San Pietro per far credere che la Veronica fosse ancora custodita nell’omonimo pilastro della Basilica Vaticana. Infatti in queste medesime pagine è presente una lampante contraddizione là dove l’autore non ha una precisa spiegazione, e indica soltanto una probabilità, per il danneggiamento dell’antico reliquiario, che era stato donato in occasione del Giubileo del 1350 dai nobili veneziani Nicolò Velentini, Bandino de Quarzonibus e Franceschino in Glostro: “Una bella tavola di bianchissimo e trasparente cristallo di rocca, che tuttora è conservata nello stesso Archivio, adornata da una cornice di fine argento e da immagini cesellate tutt’intomo, spaccata in due parti a causa, com’è probabile, dell’incuria dei custodi”. A motivo del pregio dell’oggetto, ma soprattutto del suo contenuto, appare difficile che non fosse stata prestata massima cura nel maneggiarlo, e ancor più che comunque non si avessero notizie certe su tale danneggiamento, risalente soltanto ad alcuni decenni prima. Che il reliquianio fosse stato espressamente realizzato per il Volto Santo non è infatti in discussione: lo attestano diverse fonti precedenti, mentre lo stesso Grimaldi sottolinea che il dono dei tre veneziani era motivato “dalla speciale devozione che hanno verso Dio, verso il Principe degli apostoli e specialmente verso il sacrosanto sudario, mirabilmente sistemato nella nostra Basilica secondo i propositi e i disegni di Dio, da mostrare a tutto il popolo cristiano per un grande conforto e la remissione dei peccati”. In effetti, verso metà Cinquecento si era iniziato a utilizzare per il presunto velo della Veronica un nuovo reliquiano, riadattando un artistico manufatto che probabilmente risaliva al tempo di Papa Pio II (regnante fra il 1458 e il 1464), come testimonierebbe la decorazione ispirata al suo stemma nobiliare. Di questo oggetto oggi non restano però tracce materiali, ma unicamente qualche schizzo nelle opere del Grimaldi, così da impedirci qualsiasi valutazione a riguardo delle dimensioni della reliquia e della sua trasparenza: i due aspetti essenziali per potere valutare l’autenticità del Volto Santo. Una possibile spiegazione è che – nei tempi immediatamente successivi al “sacco di Roma” – Clemente VII si adoperò in ogni modo per recuperare il più possibile di quanto era stato depredato. Suoi incaricati si misero all’opera all’interno e all’esterno dei confini dello Stato della Chiesa e riuscirono a ottenere risultati tangibili. In particolare a Napoli e a Cagliari vennero riscattate quantità notevoli di preziose vestigia. li 26 novembre 1528, il Pontefice poté così ordinare che tutte le sacre reliquie tornate a Roma “in solenne processione si portassero dalla chiesa di San Marco nella Basilica Vaticana”. Fra tutti questi oggetti ritrovati, non era difficile – a volerlo – inserire anche una falsa reliquia della Veronica, tanto nessun estraneo avrebbe mai potuto verificarne l’autenticità. A questo punto resta da chiedersi quale strada abbia compiuto il Volto Santo per giungere a Manoppello, la cui contea venne fondata nel 1061, quando il primo conte, Boemondo, ebbe assegnato il feudo di Manoppello, insieme con quelli di Caramanico, Roccamorice e Tocco da Casauria. Posta nel territorio più settentrionale del Regno di Napoli e nelle vicinanze del confine con lo Stato della Chiesa, Manoppello fu governata nel XIV e nel XV secolo dai conti Orsini e successivamente passò nelle mani della famiglia Colonna. Ma nella prima metà del XVI secolo c’era stato un passaggio di consegne che può dare nuova luce al nostro interrogativo. Su segnalazione dello studioso manoppellese Giuseppe Ricci, ho infatti consultato il libro La spedizione di Lautrec nel Regno di Napoli di Leonardo Santoro, curato da Tommaso Pedio per i tipi di Mario Congedo Editore (Galatina 1972): una riedizione del testo precedentemente curato da Scipione Volpicella con il titolo Dei successi del sacco di Roma e guerra del Regno di Napoli sotto Lotrech (Napoli 1858). Leonardo Santoro, nato a Caserta intorno al 1475 e morto sempre a Caserta il 28 ottobre 1569, verso la metà del Cinquecento si dedicò agli studi storici, raccogliendo e riordinando dati e notizie sulle vicende connesse alla spedizione nel Regno di Napoli di Odetto de Foix, visconte di Lautrec, maresciallo di Francia e comandante della spedizione del 1527-1528 in Italia. Il manoscritto originale era intitolato Ristoria del sacco di Roma dato dall’esercito imperiale sotto il comando di Carlo di Borbone conte di Avernia e di Montepensieri e dell’assedio di Napoli da Odetto de Foix signore di Lautrec. Ciò che per noi è estremamente interessante riguarda due personaggi dei quali viene fornita la biografia. il primo è Ferdinando de Alarçon, comandante dell’esercito spagnolo in Italia, che “per i servizi militari resi al re Ferdinando il Cattolico” nel febbraio del 1526 ottenne il marchesato della Valle Siciliana in Abruzzo. Un titolo del quale era con¬temporaneamente stato privato l’altro protagonista, Camillo Orsini del Pardo, accusato di tradimento dal governo vicereale spagnolo e definitivamente escluso nel 1530 da ogni beneficio di clemenza, con la confisca dei beni posseduti nel Regno di Napoli. Durante il “sacco di Roma”, ed è questo il probabile colpo di scena, Ferdinando de Alarçon – a seguito dell’accordo stipulato il 6 giugno 1527 tra Clemente VII e il comando delle forze imperiali che occupavano Roma – ebbe affidato il comando del presidio spagnolo in Castel Sant’Angelo e della guarnigione che controllò Roma sino al febbraio del 1528. Non pare dunque azzardato ipotizzare che proprio costui si appropriò del Volto Santo razziato in San Pietro e, al termine del conflitto franco-spagnolo, lo portò con sé nel territorio di cui era marchese. Come la storia ci documenta, soltanto il 6 aprile 1646 – dopo diverse vicissitudini non del tutto a noi note – il velo venne esposto per la prima volta alla pubblica venerazione dei fedeli di Manoppello, ma poi, per un’altra quarantina d’anni, rimase all’interno di una nicchia sul lato destro dell’altare maggiore. Nel 1686 i Cappuccini decisero di realizzare sulla parete sinistra della chiesa una cappella, nella quale venne trasferito il reliquiario, e nel 1690 stabilirono che la festa del Santo Volto si sarebbe celebrata il 6 agosto, in coincidenza con la solennità liturgica della trasfigurazione del Signore. Soltanto nel 1703, per iniziativa di padre Bonifacio da Ascoli, si cominciò a esporre solennemente il velo, che dal 1712 venne portato una volta all’anno in processione per le strade della cittadina. Nel 1718 l’arcivescovo di Chieti e il superiore dei Cappuccini concordarono che la celebrazione esterna della festa si sarebbe tenuta la seconda domenica di maggio, spostata poi, dal 1750, alla terza domenica del medesimo mese, per evitare la sovrapposizione con la festa del patrono di Chieti san Giustino. Intanto, più o meno in questi anni d’inizio Settecento, il conte di Tagliacozzo – distante, in linea d’aria, una settantina di chilometri da Manoppello e anch’essa appartenente alla signoria dei Colonna – donò alla locale Università (ossia alla municipalità) un dipinto raffigurante il volto di Cristo, che può essere ricondotto al modello della Veronica con gli occhi aperti, anche se divergente in alcuni particolari (per esempio la bocca ‘e aperta, ma i denti mostrati sono quelli inferiori). Sul retro, con grafia del XVIII secolo, si afferma: “Questa Sacrosanta Imagine l’ha toccata il Sacratissimo Volto Santo di Nostro Signore Gesù Cristo che si conserva nella Basilica Vaticana in Roma ed è la sua vera effigie”. ll quadro di Tagliacozzo viene da tre secoli esposto una sola volta l’anno, nella prima domenica dopo Pasqua, quando è portato in processione dal monastero delle Benedettine, dove è normalmente custodito, sino alla piazza principale del paese. Secondo padre Pfeiffer, che ne ha ricostruito la presumibile storia, l’istituzione a Tagliacozzo di una processione simile a quella di Manoppello non fu dovuta soltanto a imitazione, ma rappresentò il tentativo di cancellare tutte le tracce del furto in Vaticano. In sostanza, i Signori dei due paesi “ambedue appartenenti alla famiglia dei Colonna, debbono aver avuto sentore della scomparsa della Veronica romana dalla Basilica di San Pietro e hanno pensato che avere in Abruzzo due immagini del Volto Santo, tutte e due al centro di un evento religioso consolidato, li avrebbe aiutati a confondere le acque di fronte a eventuali inchieste da parte delle autorità pontificie circa tale sparizione”. In effetti, in tutta la complessa vicenda che ho descritto, si sono fronteggiati due timori: in Abruzzo, quello di vedersi reclamata la preziosa reliquia da parte del legittimo proprietario, ossia il Papa; in Vaticano, quello che trapelasse la notizia della scomparsa, con tutte le conseguenze sui pellegrinaggi verso Roma. L’esito è forse stato la distruzione, o almeno l’occultamento, di documenti che potrebbero far luce sullo svolgersi degli avvenimenti. Chissà che anche da questo convegno non derivi uno stimolo agli storici a mettersi sulle tracce di resoconti dell’epoca che apportino nuovi tasseili ai nostri tentativi di chiarificazione.